LE 4 GIORNATE DI NAPOLI

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    Le Quattro Giornate di Napoli






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    Il 28 settembre 1943 ebbe inizio l'insurrezione armata popolare di Napoli contro i tedeschi. Un popolo, stremato da lunghi anni di guerra, dalle privazioni e dalla fame, dai tanti bombardamenti che avevano distrutto interi quartieri della città, dalle razzie e dalle barbare rappresaglie dei soldati tedeschi, si sollevò armato di vecchi fucili, di bombe a mano e soprattutto del suo coraggio, contro uno dei più potenti eserciti del mondo. Dopo quattro giorni di duri e sanguinosi combattimenti, i tedeschi furono costretti a ripiegare e a lasciare la città.
    La notizia della vittoriosa rivolta di Napoli, prima tra le grandi città europee ad insorgere, si diffuse nel mondo, destando tra i popoli ancora oppressi dalla dominazione nazista nuova fiducia nella lotta per la libertà e per l'indipendenza nazionale.

    Con le Quattro Giornate di Napoli ha inizio la guerra di Liberazione del nostro Paese dal nazifascismo, che si concluderà il 25 aprile 1945. Dalla Resistenza nasce l'Italia democratica: ai valori della Resistenza si ispirano la Costituzione, la Repubblica, le istituzioni democratiche.

    Quando Napoli insorse, l'Italia era in guerra da tre anni, una guerra voluta dal fascismo contro gli interessi e la volontà di pace della nazione. Il Paese era stato portato al disastro da una dittatura, che da 20 anni aveva privato il popolo delle sue istituzioni democratiche, soppressi i partiti, le organizzazioni sindacali, soffocata la stampa, repressa ogni libertà di espressione.

    Nel 1940, il governo fascista aveva deciso la partecipazione alla guerra voluta dalla Germania, anch'essa retta da una dittatura ancora più barbara e più disumana di quella fascista.

    Il fascismo non si assunse solo la gravissima responsabilità di decidere l'entrata in guerra a fianco di un alleato che si proponeva la conquista e l'oppressione di tutta l'Europa: apparve ben presto evidente che il nostro Paese era stato trascinato in un immane conflitto senza un'adeguata preparazione. Le nostre forze armate, impegnate sui più lontani fronti di guerra, erano così esposte a drammatici rovesci, nonostante il sacrificio e l'abnegazione dei nostri soldati; il territorio nazionale veniva sottoposto a tremende incursioni aeree da parte degli anglo-americani; mentre durissime restrizioni erano imposte alla popolazione civile con il razionamento dei generi di prima necessità (il pane, la pasta, ecc.).

    Napoli, per la sua posizione strategica, con il suo porto, dal quale partivano le navi per rifornire le nostre truppe dislocate in Africa, subì più di cento bombardamenti. La mancanza di un'adeguata difesa antiaerea consentiva agli aerei anglo-americani di portarsi d'improvviso e indisturbati sulla città.
    Nel 1943, il porto era ridotto ad un ammasso di rovine: quasi interamente distrutti gli impianti delle stazioni ferroviarie; distrutte o gravemente colpite le industrie. Le bombe non cadevano solo sugli obiettivi militari: gli aerei portavano il loro carico di morte, indiscriminatamente, su ogni punto della città. In alcuni quartieri popolari, che ancora oggi mostrano le ferite di quelle terribili incursioni, venne rasa al suolo gran parte delle abitazioni: danni gravissimi subì anche il patrimonio artistico.

    Migliaia e migliaia di morti, di feriti, di mutilati tra la popolazione civile furono il tragico bilancio di questi anni di guerra. Molte famiglie abbandonarono la città per trovare riparo in località meno esposte, ma la gran parte dei napoletani rimase in città. Mancavano i viveri, mancava l'acqua.

    I mezzi di trasporto non funzionavano: non c'era alcun riparo sicuro alle incursioni; moltissimi trovavano rifugio nelle tante grotte naturali, o nelle gallerie della metropolitana, della Vittoria, di Fuorigrotta, per vivervi in condizioni di terribile disagio. Cresceva nella coscienza di tutti l'odio per la guerra, salivano sempre più la protesta e la condanna contro il regime fascista, che, dando prova di criminale incapacità e negligenza, non sapeva predisporre neppure le misure adeguate ad alleviare le sofferenze di un città martoriata.

    Intanto, nell'estate del 1943, gli eserciti anglo-americani, partendo dall'Africa Settentrionale, si apprestavano a sbarcare sul territorio italiano. A giugno occupavano l'isola di Pantelleria, un mese dopo sbarcavano in Sicilia.

    In una situazione ormai senza uscita, anche alcuni esponenti del regime ritennero che era necessario prendere una decisione. Nella seduta del Gran Consiglio, supremo organo del regime, riunitosi nella notte tra il 24 e il 25 luglio, Mussolini fu messo in minoranza. Il Re Vittorio Emanuele III, che pure aveva grande responsabilità per aver consentito e sostenuto il fascismo, preso atto della crisi, fece arrestare Mussolini e affidò il governo al Maresciallo Badoglio.

    Non appena la notizia fu diffusa dalla radio, vi fu, in ogni parte d'Italia un'esplosione di gioia collettiva. Alla gioia per la fine della dittatura fascista si accompagnava la speranza di una pace imminente. A Napoli, in tutta la Campania, anche nei più piccoli Comuni, le manifestazioni popolari per la fine del fascismo dimostrarono quanto grande fosse l'esultanza per la riconquistata libertà.

    Ma la gioia doveva essere di breve durata. Nel suo proclama agli Italiani del 25 luglio, Badoglio aveva dichiarato: «La guerra continua». E mentre il comando militare tedesco disponeva l'affluenza in Italia di nuove forze, gli anglo-americani intensificavano i bombardamenti sulle città italiane con l'intento di colpire, da un lato, le truppe tedesche, dall'altro di costringere il governo Badoglio a distaccarsi definitivamente dall'alleanza con la Germania. Si profilava il terribile scontro sul territorio italiano tra due potenti eserciti, che doveva apportare al nostro Paese nuovi lutti, nuove rovine, indicibili sofferenze.

    Napoli e la Campania furono ben presto l'avamposto del nuovo fronte militare. I bombardamenti alleati si susseguirono su Napoli con spietata violenza. Il più micidiale di tutti, quello del 4 agosto, provocò, in una città già così duramente provata, un numero altissimo di vittime, rase al suolo oltre cento fabbricati, arrecò nuovi danni al patrimonio artistico: la Basilica di Santa Chiara, avvolta in un immenso rogo, fu quasi interamente distrutta.

    Ma non andarono deluse soltanto le speranza di pace: il popolo italiano si accorse ben presto che il governo Badoglio poco o nulla intendeva modificare sul piano politico. Badoglio nel suo proclama aveva anche detto: «Chiunque tenti di turbare l'ordine pubblico, sarà severamente punito». E disposizioni severissime furono indirizzate in tal senso anche alle forze armate. Il nuovo governo temeva l'azione degli antifascisti, principalmente dei partiti di sinistra, la ripresa delle lotte operaie e popolari, temeva che il popolo si facesse protagonista della rinascita e del rinnovamento democratico del paese. Per questo, qualsiasi iniziativa che esprimesse la volontà di pace e di una diretta partecipazione popolare ad un fronte comune di lotta al nazifascismo, doveva essere respinta o repressa.

    Già all'indomani del 25 luglio, l'esercito e la polizia furono impiegati nella repressione delle manifestazioni popolari. La Resistenza ebbe allora i suoi primi caduti, i suoi primi martiri.

    A Napoli, in tanti comuni della Provincia, a Castellammare, a Torre Annunziata, a Pozzuoli, migliaia di cittadini, operai, studenti, donne, uomini di diversa condizione sociale, che manifestavano per la pace, si scontrarono con la decisa reazione della polizia.

    Il 20 agosto, un gruppo di antifascisti, che si richiamavano agli ideali del socialismo, mentre erano riuniti nella località di San Giacomo dei Capri, vennero arrestati e portati nel carcere di Poggioreale.

    Il 1° settembre, un folto corteo di studenti, che manifestava per la pace, venne disperso.

    Sono questi solo alcuni dei tanti episodi, che stanno a dimostrare come nei 45 giorni, che vanno dal 25 luglio all'8 settembre, il movimento per la pace, per la libertà e per l'indipendenza abbia assunto un sempre più ampio carattere di massa. Ma alle spinte popolari di rinnovamento democratico e alle proposte delle forze antifasciste di organizzare la resistenza contro le truppe naziste, qui a Napoli, come in tutto il Paese, le autorità civili e militari, interpreti degli ordini del governo Badoglio e degli alti comandi militari, risposero con la più severa repressione.

    In queste condizioni si giunge all'8 settembre, all'armistizio. Il Re e Badoglio, le più alte cariche dello Stato, abbandonano la capitale e, attraverso gli Abruzzi, raggiungono Pescara, ove si imbarcano per Brindisi, nel territorio che è già sotto il controllo degli anglo-americani. Il Paese è abbandonato al suo destino: l'esercito, che dispone di uomini e di mezzi per resistere ai tedeschi, in mancanza di ordini, finisce per sbandarsi.

    Eppure, in tanto disorientamento, in tanto smarrimento, si accendono in tutto il Paese fiammate di orgoglio nazionale e di ardimento popolare. Nasce la Resistenza armata. A Roma, il Comitato di liberazione nazionale, che riunisce i partiti antifascisti, il 9 settembre chiama gli italiani alla lotta. Nello stesso giorno, a fianco dei soldati della divisione Granatieri, che è impegnata lungo la via Ostiense ad ostacolare l'occupazione tedesca della capitale, combattono numerosi gruppi di civili.

    Tale episodio sta a dimostrare che, se il Re e Badoglio fossero rimasti sul posto, se avessero impartito all'esercito ordini precisi, se non fossero stati dominati dalla preoccupazione di impedire alle forze popolari antifasciste di prendere le armi, diverso sarebbe stato il corso degli eventi.

    Infatti molti reparti dell'esercito, pur nel generale sbandamento, dettero, prima di essere sopraffatti, prova di dignità e di coraggio. Taluni presidi che si trovavano fuori dei confini, nei Balcani, nelle Isole Ionie, in Corsica, o si unirono ai partigiani che combattevano contro i tedeschi o opposero una eroica resistenza: basti per tutti ricordare il presidio di Cefalonia, che dopo aver resistito per più giorni, venne barbaramente trucidato dai tedeschi. La Marina italiana, mentre si dirigeva verso il porto di Malta per sfuggire alla cattura dei tedeschi, fu duramente attaccata dall'aviazione nemica: alcune unità furono gravemente danneggiate, altre affondate. L'Ammiraglio Bergamini e 1500 uomini affondarono con la propria nave.

    A Napoli, la notizia dell'armistizio suscitò nel popolo un fremito di ribellione. Provato da terribili privazioni, dalla fame, costretto a vivere in condizioni disumane, il popolo di Napoli non volle rassegnarsi. La resistenza ai tedeschi, che doveva concludersi nelle Quattro Giornate, ebbe inizio in quei giorni: in quei giorni ebbe il battesimo il nuovo Risorgimento, un risorgimento che vide, durante tutta la guerra di liberazione, protagonista il popolo nella lotta per la libertà, per l'indipendenza, per il riscatto nazionale.

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    Invece, gli alti Comandi militari, i generali Del Tetto e Pentimalli, che pure avevano dimostrato nel mese precedente tanta energia nella repressione dei movimenti popolari e antifascisti, ora dettero prova di incapacità ed ignavia. I reparti tedeschi presenti a Napoli e nella regione erano certo meglio armati ed equipaggiati dei reparti italiani, che però erano numericamente superiori: se i generali Del Tetto e Pentimalli avessero dato ordini precisi, se non si fossero rifiutati alla richiesta del Comitato dei partiti antifascisti di distribuire le armi al popolo napoletano, si sarebbe potuto evitare lo sbandamento dell'esercito e organizzare una valida difesa della città. L'unica preoccupazione dei due generali fu quella di non irritare i tedeschi, i quali ebbero così la possibilità di eseguire l'ordine impartito dal proprio comando generale, di stroncare qualsiasi resistenza.

    Tanto più rifulgono, in contrasto con il comportamento dei comandanti militari, episodi di eroismo e di dignità di singoli ufficiali e soldati. Il generale Ferrante Gonzaga, comandante di un divisione di stanza presso Salerno, si rifiuta, all'intimazione tedesca di impartire ai suoi soldati l'ordine di resa e viene trucidato; presso Villa Literno, cade ucciso dai tedeschi il colonnello Ferraiolo; a Nola, dieci ufficiali del 12° e del 48° reggimento vengono fucilati. A Napoli, nei giorni immediatamente successivi all'armistizio, gruppi di militari si oppongono ai tedeschi; in questi scontri cadono il tenente Farneti, sottufficiali e semplici soldati.

    Intanto, negli stessi giorni, altri scontri si accendono tra il popolo napoletano e reparti tedeschi: uomini, donne e ragazzi reagiscono all'occupazione con straordinario coraggio. Si combatte nelle strade, nei vicoli, in punti diversi della città. A Santa Brigida, un gruppo di militari tedeschi, sul punto di sopraffare un carabiniere, viene circondato, costretto alla resa e consegnato alle autorità militari italiane. Alla litoranea e alla Torretta, negli scontri che vedono impegnati insieme col popolo soldati, marinai, un gruppo di tedeschi viene fatto prigioniero. Ma la parola d'ordine del comando italiano è una sola: non irritare i tedeschi. E i prigionieri vengono liberati. Si verificano altri scontri in più parti della città. I tedeschi reagiscono con rabbiosa determinazione. L'11 settembre catturano quattordici carabinieri che coraggiosamente hanno tentato di impedire la distruzione del palazzo dei telefoni in via Depretis. Trasportati in una località presso Aversa, i carabinieri vengono barbaramente trucidati.

    Il giorno dopo, i tedeschi danno alle fiamme l'Università. La rappresaglia si scatena ormai con una rabbia bestiale. La città, che ha osato opporsi, deve essere piegata con l'arma del terrore: con l'incendio dell'Università, i nazisti credono di annientare quei valori di libertà e di civiltà, che animano la resistenza di un popolo disarmato. Sulle scale dell'Università, dinanzi ad una folla costretta ad assistere all'esplosione di una così cieca violenza, un giovane marinaio viene passato per le armi.

    Si concludono così i primi quattro giorni dell'occupazione tedesca. Se nelle prime ore dopo l'armistizio le truppe tedesche erano state incerte se mantenere o meno la città, ora - come sì è detto, anche per la deplorevole inerzia del comando territoriale italiano - sono decise a fare di Napoli un avamposto contro gli anglo-americani sbarcati a Salerno.

    Il 12 settembre, il colonnello Scholl assume il comando assoluto della città. Il suo proclama costituisce la prova della sorpresa e della rabbia di questo ufficiale tedesco per la resistenza del popolo che non si piega alla violenza e al terrore. «Ogni soldato germanico ferito o trucidato verrà vendicato 100 volte... Esiste lo stato d'assedio... Chiunque verrà trovato in possesso di un'arma verrà immediatamente passato per le armi».

    La città doveva essere duramente punita: nel piano del colonnello Scholl si doveva fare di Napoli "terra bruciata". Sono in questo piano non soltanto la distruzione di opere militari, che poteva trovare una qualche motivazione, ma la distruzione del patrimonio produttivo, delle industrie, degli impianti civili, il saccheggio dei depositi di viveri, la deportazione in massa della popolazione maschile.

    Intanto, gli anglo-americani avanzavano da Salerno verso Napoli. La città si trovò così al centro dello scontro tra due potenti eserciti. Nuovi lutti, nuove distruzioni, ancora più atroci sofferenze. Ma anche in questi giorni, che precedono le Quattro giornate, il popolo non si arrese, continuò a resistere rifiutando la consegna delle armi, sottraendo alle retate i giovani, gli uomini validi, i militari, in prevalenza di altre regioni, sorpresi a Napoli al momento dell'armistizio.

    La città è affamata, la razione di pane ridotta a 100 grammi giornalieri. Manca in talune zone l'acqua. Eppure nei vicoli dei vecchi quartieri, in ogni punto della città, si prepara l'insurrezione. Si rinsaldano nuovi e profondi vincoli di solidarietà tra le famiglie, tra uomini di diversa condizione sociale. Le donne sono in prima linea in queste ore drammatiche: le abbiamo già viste partecipare agli scontri contro i tedeschi nei primi giorni dopo l'armistizio; le ritroveremo nelle Quattro Giornate, protagoniste accanto ai patrioti, ai combattenti, sulle barricate. E con le donne i ragazzi, i famosi scugnizzi, scrivono una delle pagine più belle e più commoventi della storia della resistenza napoletana.

    Assunto il comando assoluto, il colonnello Scholl dà inizio al piano di distruzione degli impianti industriali della città. Guidati da fascisti, i tedeschi smantellano pezzo per pezzo macchinari, portano via tutto ciò che è trasportabile, poi completano la rovina con l'esplosivo e con le fiamme.

    «Così all'Alfa Romeo - racconta Nino Aversa - alla Cellulosa Cloro Soda, alle Cotoniere Meridionali, ai cantieri Vigliena, alle industrie Navali Aeronautiche Meridionali, alle Vetrerie ed a tutti gli altri opifici minori... Durava ancora la devastazione della zona industriale ed occidentale, quando nella zona orientale gli impianti dell'Ilva e dell'Ansaldo, del Silurificio e di Armstrong furono fatti saltare... Poi fu la volta della Navalmeccanica e di tutto quanto esisteva nel porto, installazioni, impianti, merci depositate in terra ferma o su chiatte. Il carburante scorreva a fiotti e portava le fiamme un po' dappertutto, il mare stesso ardeva ed i sinistri bagliori si riflettevano tutto all'intorno. I macchinari più delicati della Navalmeccanica, per salvarli dal pericolo delle incursioni, erano stati dal porto trasportati nelle capaci grotte di Villa Gallotti a Posillipo. Furono distrutti minuziosamente, con scientifica precisione... Il pontile di Bacoli, il ponte di San Rocco a Capodimonte furono fatti saltare. Il giorno 20... cominciò la distruzione non più della periferia, ma dello stesso nucleo centrale della metropoli» (da "Napoli sotto il terrore tedesco", Maone, 1943).

    I tedeschi procedono al tempo stesso alla distruzione delle attrezzature ferroviarie, del porto, già gravemente colpiti da bombardamenti aerei, del gasometro, dei depositi dell'azienda tranviaria. Vengono saccheggiati depositi di viveri, magazzini di vestiario, dati alle fiamme grandi alberghi: viene sottratto alle chiese un prezioso patrimonio di ori e di opere d'arte. Napoli è avvolta in quei giorni dal denso fumo degli incendi e di tanto in tanto scossa dallo scoppio improvviso delle mine.

    Il colonnello Scholl avverte che la città, giunta ormai al colmo della disperazione, non si arrende. Sa che nei vicoli, nei quartieri popolari, vengono nascosti uomini, giovani militari sbandati e con essi molti prigionieri alleati che, al momento dell'armistizio, sono fuggiti dai campi di concentramento. I napoletani affamati dividono con loro la misera razione di pane.

    Il proclama del colonnello Scholl, con il quale si imponeva la consegna di prigionieri alleati, rimase inascoltato. Nessuno si lasciò piegare delle minacce o dalla lusinga di un compenso. Con un'altra ordinanza, il colonnello Scholl prescrisse alla popolazione della fascia costiera di lasciare la zona. Migliaia e migliaia di cittadini furono costretti ad abbandonare le proprie case, a trovare rifugio nelle grotte, nelle baracche, negli scantinati di tanti edifici colpiti dai bombardamenti.

    Con un altro proclama, tutti gli uomini, appartenenti alle classi dal 1910 al 1925, vennero chiamati a presentarsi per il servizio obbligatorio del lavoro. Il decreto era firmato dal Prefetto Soprano. Su trentamila persone, risposero all'ordine soltanto 150.

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    Allora si scatenò la rappresaglia nazista. I soldati tedeschi ebbero l'ordine di procedere al rastrellamento di tutti gli uomini sorpresi nelle strade, nelle case, nei posti di lavoro. E' una vera e propria caccia all'uomo. In molti casi le donne circondano in folla i tedeschi e consentono la fuga dei giovani fermati; altri riescono a sfuggire durante il trasferimento ai centri di raccolta; altri, avvertiti del pericolo, trovano rifugio nei tanti nascondigli della città. Non c'è casa che si chiuda a chi abbia bisogno. Ma nonostante gli aiuti, nonostante il coraggioso comportamento della popolazione, ben ottomila napoletani vengono presi. Si inizia per loro il duro cammino della deportazione. Alcuni riescono a salvarsi con la fuga durante il trasferimento, altri sono deportati in Germania; molti non rivedranno più la loro terra.

    LE "BARRICATE"



    La liberazione della città è sentita certo come liberazione dalle sofferenze, dal terrore, dalla fame, ma in primo luogo come impegno civile per la pace, per il progresso, per l'indipendenza del Paese dall'oppressore straniero.

    E' difficile dire dove ebbe luogo il primo scontro contro i tedeschi. La deportazione in massa di tanti uomini rastrellati dai tedeschi, la notizia che i serbatoi di acqua di Capodimonte erano stati minati, che altri impianti civili stavano per essere distrutti, furono la scintilla della rivolta. Il 28 settembre da Fuorigrotta a Piazza Nazionale, da Via Foria a Piazza Carlo III a Capodimonte, la città tutta vibrava di un unico fremito insurrezionale. Non ci fu un ordine preciso. L'insurrezione esplose contemporaneamente in punti diversi della città. Gli uomini uscirono dai rifugi, presero le armi e le munizioni nascoste nei giorni precedenti, levarono barricate e posti di blocco, affrontarono in campo aperto i tedeschi.

    Al Vomero, la mattina del 28 settembre, un gruppo di giovani attacca una pattuglia tedesca. Da quell'episodio la lotta divampa per le strade del quartiere, da Piazza Vanvitelli al Campo sportivo. Al Liceo Sannazaro si costituisce un comando, diretto da Antonino Tarsia e da Edoardo Pansini, che guiderà e coordinerà l'insurrezione del quartiere. Intanto si scatena la rabbiosa rappresaglia tedesca. Cadono uccisi dal fuoco nemico alcuni civili, altri restano feriti. Quarantasette civili, giovani, donne, anziani, presi dai tedeschi, sono rinchiusi in ostaggio nello stadio. I patrioti passano all'attacco del presidio tedesco, sistemato nei pressi dello stadio. Sono in prevalenza giovani, che non hanno alcuna esperienza militare: eppure si muovono con intelligenza e con ardimento, con lo slancio e la forza della causa per la quale combattono. Dopo una lunga giornata di duri e sanguinosi combattimenti, i tedeschi sono costretti a lasciare il campo sportivo. Il colonnello Scholl, che ha il suo comando al Corso Vittorio Emanuele, autorizza i propri soldati a trattare la resa. I quarantasette ostaggi vengono liberati: la guarnigione tedesca lascia le proprie posizioni.

    I combattimenti al Vomero continuano nei giorni 29 e 30: duri scontri si accendono alla Pigna, in località Pezzalonga. I tedeschi non hanno tollerato l'umiliazione della resa: passano al contrattacco, affiancati da un folto gruppo di fascisti. Alla fine i tedeschi sono costretti ad abbandonare il Vomero. Molti patrioti sono caduti, durante quelle giornate di aspri combattimenti. Ricordiamo il giovane Adolfo Pansini - al suo nome è oggi intitolato un Liceo della città - e con lui tutti i caduti della resistenza al Vomero. Ricordiamo con loro anche quei civili massacrati dai nazisti e dai fascisti, che nella loro ritirata verso i Camaldoli vollero così dare sfogo alla loro rabbia. Al Vomero, ma in ogni parte della città, sulle barricate, nei posti di blocco, accanto ai patrioti, contro un esercito disciplinato, ben armato, c'è la solidarietà, l'unità, il calore di tutto un popolo, che nei vicoli, nelle strade, partecipa alla lotta, curando il rifornimento di armi, di munizioni, di viveri, raccogliendo i propri morti, apprestando le cure dei feriti.

    Dal Vomero a Salvator Rosa, al Museo, altri scontri si accendono fin dalle prime ore del 28. A Salvator Rosa i patrioti attaccano i reparti di fascisti e di tedeschi, sistemati nelle scuole "Vincenzo Cuoco", ove trovano armi, munizioni e viveri. Impossessatisi, poi, anche del distaccamento di Gesù e Maria, gli insorti si assicurano il controllo delle importanti vie di collegamento, che da Salvator Rosa salgono al Conte della Cerra e a Piazza Leonardo. Contemporaneamente si combatte lungo le strade che da Piazza Mazzini conducono al Rione Materdei. Si levano barricate, si dispongono posti di blocco, si organizzano i rifornimenti e i posti di soccorso per i feriti.

    Si è già detto che l'insurrezione non nacque secondo un piano preordinato, che erano mancati il tempo e la possibilità di predisporre una preparazione e una organizzazione militare. Ma nel vivo dello scontro armato, sul campo, con una sorprendente e geniale intuizione rivoluzionaria, i partigiani operarono con una chiara visione strategica, che conferì unità e coordinamento alle iniziative dei diversi gruppi di combattimento. Nascono così, già nelle prime ore, nuclei di direzione politica e militare. Emergono alla testa degli insorti giovani operai e intellettuali, vecchi antifascisti, perseguitati dal regime, usciti da lunghi anni di carcere e di confino: con loro soldati e ufficiali, sfuggiti ai rastrellamenti tedeschi, che portano il contributo della loro esperienza militare.

    Al Vomero - come si è visto - nasce un comando partigiano con Antonino Tarsia: alla scuola "Vincenzo Cuoco", cacciati i tedeschi, si costituisce un comando che ha il compito di organizzare le azioni di guerriglia e, al tempo stesso, di assicurare la distribuzione dei viveri alla popolazione. Al Parco Cis, a Salvator Rosa, nasce, per iniziativa di Eugenio Mancini, nel pomeriggio del 29 un comando unitario di tutte le forze insurrezionali della zona, che coordina le iniziative militari, organizza le operazioni per la cattura dei fascisti, molto numerosi in quel quartiere, traccia un programma di riorganizzazione democratica della vita cittadina dopo la liberazione. Altro comitato di direzione e di coordinamento è quello di San Gaetano. Ovunque, la spontaneità e l'audacia dei patrioti, guidati da comandanti espressi dall'impulso insurrezionale, si ritrovano attorno a precisi obiettivi: al Vasto, in Piazza Nazionale, in Piazza Carlo III e in Via Foria.

    Da Capodimonte a Santa Teresa, l'azione si sviluppa con un chiaro programma: attaccare le posizioni nemiche di artiglieria che sparano ad uno dei punti dominanti della città, causando distruzioni e vittime; contrastare il movimento dei carri armati; impedire la distruzione dell'acquedotto, che rifornisce di acqua la città. L'azione per salvare l'acquedotto viene condotta fin dal giorno 27, allorché si diffonde nel quartiere la voce che i tedeschi si apprestano a disporre le mine per far saltare gli impianti. Immediatamente un gruppo di patrioti attacca i tedeschi, cattura alcuni guastatori, disinnesca le cariche di esplosivo. Sono i patrioti operanti nella zona a salvare i ponti della Sanità, che i tedeschi hanno minato in vista di una loro ritirata verso il Nord. Intanto si combatte al Museo, ove s'incontrano le strade che da un lato portano a Capodimonte e dall'altro per Foria verso Capodichino.

    Il Museo è un punto strategico della massima importanza sia per bloccare i tedeschi e i fascisti, che tentano di aprirsi un varco, risalendo dal centro della città, sia per impedire ai carri armati tedeschi di tornare in forza in appoggio ai reparti attaccati dai partigiani. E proprio al Museo si accende uno degli scontri più violenti. Nel pomeriggio del 29 alcuni carri armati "tigre" irrompono d'improvviso da Capodimonte: i tedeschi vogliono da un lato venire in soccorso ai reparti attaccati dai partigiani, dall'altro dare una dura lezione ad una città che ha osato ribellarsi. I patrioti hanno previsto la possibilità della rappresaglia nazista e hanno fatto giungere a San Potito molte armi e munizioni, hanno rovesciato lungo le strade per Capodimonte vetture tranviarie ed eretto barricate. Alcune mitragliatrici sono state sistemate sui balconi delle case vicine. Fu questo uno degli episodi più importanti della resistenza napoletana, sia per la partecipazione collettiva della popolazione, sia perché accanto al nucleo di San Potito, del Museo, della Galleria Principe di Napoli, accorsero a dare rinforzo patriota da Salvator Rosa, da Foria e da altri punti vicini. Nonostante l'ardimento dei partigiani, il fuoco aperto con armi inadeguate non riuscì a fermare i mezzi corazzati tedeschi. I "tigre" superarono lo sbarramento e si avviarono verso via Roma: ma qui, dai vicoli, nelle strade dei vecchi quartieri, dai bassi, dall'alto delle case, la resistenza divampò in innumerevoli azioni di guerriglia.

    Alla fine i tedeschi furono costretti a ripiegare. Non rientrava nella logica e negli schemi della condotta militare tedesca la lotta armata di un popolo. Le truppe tedesche si muovevano secondo schemi, verificati dalla esperienza militare; non rientrava in questi schemi l'ardimentoso accorrere di un ragazzo, armato di bombe a mano contro un'autoblindata; provocava sorpresa e disorientamento l'attacco di gruppi che si levavano d'improvviso, affrontavano l'urto con imprevedibile rapidità, si sottraevano alla cattura nel dedalo delle strade, protetti dal rapido accorrere di altri patrioti, di donne e di ragazzi. Non poteva rientrare, in primo luogo, nella logica della strategia militare di un esercito che si era mosso per opprimere la libertà e l'indipendenza dei popoli, l'impegno generoso di una città che si batteva per liberarsi dall'oppressione e per un ideale di rinnovamento, di libertà e di pace.

    Nei giorni 29 e 30 si continua a combattere da via Roma a Chiaia, a Posillipo, in tutti i quartieri della città. E' qui difficile ripercorrere tutto l'itinerario dell'insurrezione. Abbiamo citato alcuni episodi, per dare un'immagine della lotta sviluppatosi in questi giorni a Napoli, una lotta che costituisce la prima grande iniziativa insurrezionale, unitaria e popolare, di una grande città contro i nazifascisti.

    L'azione dei patrioti si sviluppò in quei giorni anche nelle zone periferiche. A Ponticelli, un gruppo di operai e di giovani, a cui si erano uniti alcuni soldati sbandati, ingaggiò il 29 settembre un duro combattimento con i tedeschi. Alla fine, gli insorti furono sopraffatti dalle armi automatiche e dai carri armati. Seguì una cieca, spietata repressione, che costò la vita a tanti abitanti della zona.

    Il 30 settembre iniziò il ripiegamento di tutte le truppe tedesche verso il Nord.

    Si accennato all'azione svolta dai fascisti durante l'occupazione. I fascisti, che collaborarono coi tedeschi, rappresentavano una piccola minoranza del popolo napoletano: ma una minoranza che ebbe tanta parte, anche nel corso delle due settimane che precedono l'insurrezione, nel sostegno delle razzie, delle ruberie, delle distruzioni, operate dai tedeschi, delle azioni di rastrellamento e di deportazione di tanti napoletani.

    Negli scontri delle Quattro Giornate, molti partigiani caddero sotto il fuoco dei fascisti. Federico Zvab, che ebbe il comando dei patrioti della zona di San Gaetano, in una sua cronaca, ancora inedita, racconta che i fascisti in quei giorni sparavano sui partigiani dai tetti, dall'alto delle finestre, per poi dileguarsi rapidamente attraverso le case vicine.

    Uno di questi gruppetti di cecchini fece molte vittime a Salvator Rosa: ci vollero parecchie ore di caccia all'uomo per annientare i proditori criminali attacchi di questo gruppo di fascisti.

    Così, a Piazza Dante, i cecchini fascisti, sparando dal terrazzo del Liceo Vittorio Emanuele, provocarono numerose vittime anche tra la popolazione non combattente. Attaccati in forza dai partigiani, fuggirono attraverso i palazzi che si estendono da Port'Alba fino a Piazza del Gesù.

    Ma un po' ovunque, da Via Foria a Via Roma, da Via Duomo a Via dei Mille, a Via Scarlatti, a Piazza Vanvitelli, i partigiani furono attaccati dai fascisti.

    Così uno scontro violento si ebbe a Porta Capuana, ove una trentina di fascisti, appoggiati da guastatori tedeschi, avevano occupato la sede degli Arditi. Allontanatisi i tedeschi, i fascisti, che avevano trasformato la sede in un fortilizio, continuarono a sparare sui partigiani e sulla popolazione. La morte di una donna, uccisa dal fuoco fascista, provocò la pronta reazione dei partigiani e di tutto il quartiere. Per tre quarti d'ora si svolse una vera e propria battaglia: alla fine i fascisti furono costretti ad arrendersi.

    Anche a Montecalvario, dalla caserma Paisiello, che era stata giorni prima abbandonata dalle truppe italiane, i fascisti per tre giorni seminarono il terrore tra la popolazione della zona. Attaccati dai partigiani, dopo un violento scontro a fuoco, i fascisti si dettero alla fuga.

    Molto attivi i fascisti furono anche nel tratto che va da Piazza Cavour all'Orto Botanico. Dalla cupola della chiesa, situata di fronte alla caserma Garibaldi, essi sparavano con una mitragliatrice su combattenti e civili.

    La criminale azione fascista si sviluppò in tutti i giorni dell'insurrezione popolare e solo dopo numerosi attacchi fu definitivamente liquidata.

    Il primo ottobre Napoli è ormai libera.

    Prima di allontanarsi, i tedeschi vogliono ancora sfogare il loro odio contro la città: con i cannoni sparano sulle case e sulla popolazione, provocando altri lutti, altre distruzioni.

    Giunti a San Paolo di Belsito, presso Nola, danno alle fiamme le preziose carte dell'Archivio storico di Napoli. I nazisti non hanno potuto piegare la resistenza di un popolo. Credono con questa barbara azione di distruggerne le memorie: forse intuiscono che da quelle memorie, dalla sua storia e dalla sua civiltà, dalla sua antica sete di libertà e di giustizia, quel popolo ha tratto la forza per resistere e per insorgere.

    «Ritengono - dice Roberto Battaglia - di cancellare così dalla faccia della terra una delle zone più importanti della civiltà italiana; mentre quella civiltà, pur mutilata irrevocabilmente nel suo passato, risorge invece dinanzi ad essi: è la civiltà nuova del popolo napoletano che dalle Quattro Giornate prenderà lo slancio per l'avvenire, un documento questo che non potrà mai essere distrutto, qualunque sia la vicenda futura».

    Quando gli alleati entrarono in città, non trovarono un nemico che fosse uno. Napoli s'era liberata da sola. Nel dopoguerra, oltre alla medaglia d’oro alla città di Napoli, furono conferire agli insorti 4 medaglie d’oro alla memoria, 6 d’argento e 3 di bronzo. Le medaglie d'oro furono assegnate ai quattro scugnizzi morti: Gennaro Capuozzo (12 anni), Filippo Illuminati (13 anni), Pasquale Formisano (17 anni) e Mario Menechini (18 anni). Medaglie d’argento alla memoria di Giuseppe Maenza e di Giacomo Lettieri; medaglie d’argento ai comandanti partigiani Antonino Tarsia, Stefano Fadda, Ezio Murolo, Giuseppe Sances; medaglie di bronzo a Maddalena Cerasuolo, Domenico Scognamiglio e Ciro Vasaturo.

    Questo il bollettino delle 4 giornate: oltre 2.000 combattenti, 168 furono i napoletani caduti in combattimento, 162 i feriti, 140 le vittime tra i civili, 19 i morti non identificati, 162 i feriti, 75 gli invalidi permanenti.

    La motivazione della medaglia d'oro al valore militare conferita alla città di Napoli fu la seguente:

    “CON UN SUPERBO SLANCIO PATRIOTTICO SAPEVA RITROVARE, IN MEZZO AL LUTTO E ALLE ROVINE, LA FORZA PER CACCIARE DAL SUOLO PARTENOPEO LE SOLDATESCHE GERMANICHE SFIDANDONE LA FEROCE DISUMANA RAPPRESAGLIA.

    IMPEGNATA UN'IMPARI LOTTA COL SECOLARE NEMICO OFFRIVA ALLA PATRIA NELLE QUATTRO GIORNATE DI FINE SETTEMBRE 1943, NUMEROSI ELETTI FIGLI.

    COL SUO GLORIOSO ESEMPIO ADDITAVA A TUTTI GLI ITALIANI LA VIA VERSO LA LIBERTÀ, LA GIUSTIZIA, LA SALVEZZA DELLA PATRIA”.

    Edited by Neapel - 29/4/2019, 00:35
     
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